lunedì, novembre 5

Luxor Chester Hotel

(...)
Mentre Marvin esponeva la sua profonda analisi biblica sui miracoli, la porta dellʼascensore numero due della hall emise un tintinnio.
“Piano terra”
Disse la voce registrata proveniente dallʼinterno. La voce era di donna. Qualcuno sospettava fosse in realtà quella di Janet Rose Plump. Non lʼattuale direttrice dellʼalbergo. Ma la Janet Rose Plump con la quale il vecchio Signor Cullet ci rimase secco. Non che vi fosse alcuna differenza anagrafica, ne somatica. In realtà erano la stessa identica persona. Solo che sembrava diversa. Unʼinspiegabile diversità. Forse nei comportamenti. O nel modo di vestire. Qualcuno sospettava fosse il cambio di profumo. O il taglio di capelli. Erano molteplici e diverse le teorie a riguardo. Ma la piùʼ accreditata era senza dubbio quella del giovane Jean Pirot.
Jean Pirot aveva iniziato come “lʼapriporta”. Il nome venne coniato dal signor Cullet una sera di fine inverno, quando tornando in albergo, trovò il giovane che in quel momento era fermo dinanzi alla porta dʼingresso e prima che potesse venir fuori dallʼauto Pirot gli apriʼ la portiera dellʼauto. Il signor Cullet ne rimase dapprima sorpreso, poi sorrise compiaciuto e gli diede una vigorosa pacca sulla spalla, così forte che ci mancò poco il giovane Pirot si abbassasse di una ventina di centimetri.
- Bravo giovanotto.
- Grazie signor Cullet.
- Sai perché ti ho detto bravo?
- No signor Cullet.
- E perché mi hai ringraziato allora?
- Non lo so signor Cullet.
Bisognava vederlo il giovane Jean Pivot mentre parlava con quella montagna del signor Cullet. Pareva stesse per pisciarsi addosso da un momento allʼaltro. Ma ringraziando il cielo riuscì a trattenersela per tutta la durata della loro conversazione. Le ginocchia gli tremavano sbattendo lʼuna con lʼaltra. E quello che veniva fuori dalla sua bocca, era un lontano ricordo di quella che era la sua voce.
- Aprire la portiera dalla mia auto. Eʼ stato gentile da parte tua.
- Grazie signor Cullet.
- Mi piace giovanotto. Fa molto immagine. Eʼ esattamente quello che cerchiamo qui. Lo fai
con tutti i clienti?
- No signor Cullet.
- E perché no?
- Non lo so signor Cullet.
- Allora sentimi bene.
- Si signor Cullet.
- Primo, smettila di ripetere signor Cullet in quel modo, mi stai facendo venire il
voltastomaco.
- Va bene signor Cullet.
- ...
- ...
- Secondo. Voglio che tu lo faccia con tutti e voglio che tu stia sempre qui dinanzi alla
porta. Che apra la portiera ai clienti e porti la loro auto giù nel parcheggio. Intesi
signorino?
- Si signor Cullet.
- ...
- ...
Il signor Cullet gli diede le chiavi della sua macchina, si voltò ed inizio lentamente a risalire le scale che conducevano alla porta dʼingresso dalla hall dellʼalbergo accompagnato dal suo assistente. Nonché segretario. Nonché nipote. Nonché figlio della sua amata sorella Jennifer Cullet.
Mentre saliva le scale, il signor Cullet senti una specie di bisbiglio. Come un fischio. Un suono intermittente. Era il giovane Jean Pivot che dopo aver raccolto tutto il suo coraggio, cercava di porre la piùʼ onesta delle domande. Ma quello che ne venne fuori fu una sorta di mitragliata balbuzie.
- Shh...shh...shhh...
Il signor Cullet si girò e volto lentamente il collo come un uccello dʼacqua che le sue zampe mezze affondate nella sabbia e mezze fuori, lasciando che il grasso del suo triplo mento in stile tacchino avvolgesse come un cellophane il colletto della sua camicia.
- Dici a me giovanotto?
- Shh...shh...si shh...shh..Signor Cullet. Ho, uhh...uhh una domanda.
- Spara. Secco e veloce.
- Cosa...bé si insomma...cosa succede se mentre sono occupato a parcheggiare una
macchina, nel frattempo...ecco, si...insomma ne arriva un altra?
- ...
- ...
- ..che domande! Corri giovanotto. Corri.

Così disse il signor Cullet e cosìʼ fu.
Da allora la carriera del giovane Jean Pirot era stata, per così dire, dellʼandamento dellʼelettroencefalogramma di un sasso abbandonato e ritrovato nel bel mezzo del deserto. Ovvero totalmente piatta. Pirot nacque bambino. Crebbe giovane. Divenne apriporta. E secondo il pensiero dei piu, nonché molto probabilmente del signor Cullet stesso, sarebbe morto apriporta. Ma a lui andava bene cosi.
Lʼunica evoluzione fu che dallʼiniziale timidezza e balbuzie, successivamente ci mancava poco che Pirot mandasse affanculo tutti i clienti del Luxor che parcheggiavano dinanzi alla porta dʼingresso. Questo secondo marvin faceva parte della metamorfosi da giovane a uomo. E proprio mentre la metamorfosi stava avendo luogo fu proprio il non più giovane Jean Pirot a spiegare a tutti cosa cʼera di diverso in Janet Rose Plump.
- Eʼ solo meno troia e più stronza.
Cosi disse il non piu giovane Pirot. Eʼ solo meno troia e piuʼ stronza. Tutti i presenti tra cui si annoveravano quattro camerieri, due inservienti, tre donne delle pulizie, Marvin, Edward, Charlotte ed il vecchio pappagallo del Signor Cullet rimasto in dote allʼalbergo
annuirono con soddisfazione. Convenendo di buon grado che quella era in assoluta sintesi la definizione piùʼ esatta della nuova, ma non diversa, Janet Rose Plump direttrice del Luxor Chester Hotel.

giovedì, novembre 1

Saloon

- Allora?
- ...
- Allora cosa prendi da bere?
- ...
- Senti no so chi diavolo tu sia, ma nessuno sta in piedi di fronte al bancone del mio bar fissandomi a quel modo. Dimmi cosa diamine vuoi da bere prima che ti prenda a calci in culo.

Willy Lo Squarcio spostò lo sguardo sulle bottiglie alle spalle del barman. Le osservò una per una. Ne osservava la forma. Il contenuto. Il colore. Una per una. Lentamente. Vedeva la sua immagine riflessa nello specchio, Willy. Vide il suo cappello sporco grigio impolverato e sudicio. La sua mantella stretta sul collo che cadeva sulle sue spalle ricurve. E proprio all'altezza del petto vi trovò un paio di fori e strappi. "Vista cosí fa davvero schifo" pensò. Quando il suo sguardo raggiunse l'ultima bottiglia della mensola torno a fissare il barman. E poi abbassò lo sguardo sul bancone.
Cosí disse Willy. Per dirla tutta non disse proprio un bel niente. Semplicemente, niente.
Willy era detto Lo Squarcio. E quando lo si chiamava cosí, qualcuno lo guardava attentamente in volto, cercando qualche cicatrice, qualche segno che potesse giustificarne il nome. Un segno di un taglio, magari vicino alla guancia, o all'altezza del collo, o meglio un proiettile che forse l'aveva sfiorato in un duello, lasciandoli un segno profondo in volto. Ma in volto la gente vi scorgeva solo un barba grigiastra e incolta, e non vi era niente che potesse giustificarne il nome.
Cosí si pensava una cicatrice Willy l'avesse sulla coscia. Forse una lunga cicatrice dall'inguine fin giù per il ginocchio, di quelle lunghe e profonde, da far paura solo a guardarla. Una di quelle robe da renderti zoppo e claudicante a vita, ma Willy, quando lo si vedeva arrivare camminava ben dritto sulle gambe. Aveva certo un'andatura che ricordava un cammello, con la schiena ricurva e qualche sputo di catarro che volava via sul pavimento, la strada, la polvere o dovunque si trovasse. Ma quando camminava non zoppicava affatto. Arrivava cosí Willy Lo Squarcio, camminando come un cammello, schiena ricurva, sguardo basso ed il mondo che pareva essere la sua sputacchiera personale. Tutti si chiedevano perché magari non lo si chiamava Willy Il Cammello allora. É per quello che si usano quei nomignoli. E se non si chiama Il Cammello uno che cammina e sputa come un cammello, ci sarebbe pur dovuta pur essere una ragione. Il Cammello non sarebbe suonato cosí inquietante come Lo Squarcio, ma chiamare qualcuno a quel modo senza nessuna ragione era scomodo, faceva sentire come avere una tarantola che si muove nei calzoni dopo aver chiuso la lampo. Infastidiva e rendeva nervosi. Quando lo vedevano arrivare nessuno sapeva perché Willy fosse detto Lo Squarcio. Solo quando Willy voltava le spalle e andava via, allora era chiaro a tutti. La tarantola dai pantaloni spariva e tutto tornava come prima. Quando Willy si voltava per andarsene la prima cosa che si notava erano la schiena ricurva e la lunga mantella impolverata che scendeva lunga fin dietro alle ginocchia. Ma quando toglieva la mantella allora lo si capiva. Lo si vedeva. Tutti lo vedevano con i proprio occhi. Lo squarcio. Willy aveva il culo di fuori. Perché l'unico squarcio che aveva era uno lungo e sfilacciato sur retro dei suoi pantaloni. Un lungo enorme pezzo di stoffa mancante che partiva da sopra le chiappe e scendeva giù per la gamba sinistra. Si notavano le cuciture e ricuciture che nel tempo qualcuno aveva provato a metter su per saldare insieme i pezzi di stoffa. Ma la strappo nei pantaloni era ancora li. Penzolante.

- Quello deve avere una scoreggia da far tremare la terra.
- Magari gli viene bene quando va al cesso.
- Magari non gli stanno le chiappe nei pantaloni.

Questo diceva la gente di Willy Lo Squarcio. Quando andava via e non aveva la mantella indosso.
Ma in quel momento nel Saloon Willy era seduto e nessuno ne aveva ancora visto le chiappe.

- Che c'é Marnix, questo cerca rogna?
- Ed io che ne so Phil. Sta qui fermo immobile da quando é arrivato. Non beve. Non parla. Non dice un cazzo.
- Hey tu. Dico a te cowboy hai qualche problema?

Willy fissava il bancone. Senza voltarsi.
Marnix, il barman Marnix, aveva le entrambe le mani strette sul bordo del bancone, con la maniche della camicia rialzate ed un enorme chiazza di sudore all'altezza del petto.
Phil, detto Spacca-Naso-Phil perché una volta era talmente ubriaco da riuscire a rompersi il naso contro la porta del bagno per tre volte di fila, una per ogni volta che era andato a farsi una pisciata in bagno, guardó ancora una volta Marnix negli occhi e poi si avvicino a Willy. Gli si sedette di fianco, osservandolo da vicino.
- Ma respira?
- Ed io che ne so. Da qua pare di no.
- Magari non parla la nostra lingua. Magari é un forestiero. O chessò io.
- Prova a mettergli un dito nel naso Phil, magari ha qualche reazione.
- O magari gli spacco quel naso con un pugno forse qualcosa la dice.

E mentre lo disse Phil, detto Spacca-Naso-Phil gli posò una mano sulla spalla.
L'attimo seguente il mondo si fermò. Il saloon si fermò.
Jackie-Tre-Mani, il pianista Jackie tre mani che con una mano fumava una sigaretta, con una beveva il suo bicchiere di succo di more e con l'altra suonava un movimentato boogie woogie si fermo su un Do diesis scordato che vibrò nell'aria per un eternità. I fratelli Duncan che non avevano detto nemmeno una parola per tutta la giornata seduti ad un tavolo in fondo alla sala, continuarono a non dire niente ma si voltarono verso Jackie-Tre-Mani. Jackie che si era voltato verso Bill. Bill meglio conosciuto come Provaci-ancora-Bill per la sua incontinenza ed il suo continuo dirigersi verso il bagno del saloon, fermarsi sulla porta e poi tornare al suo posto. Risedersi e subito rialzarsi fino ad arrivare alla porta del bagno del saloon. La maggior parte delle volte al terzo o al quarto tentativo Bill entrava in bagno e li rimaneva per un pò. Usciva con un aria soddisfatta Provaci-Ancora-Bill. Si sedeva, ordinava un'altra pinta e li rimaneva fino a che non li fosse scappata ancora una volta. Quando i fratelli Duncan guardarono Bill, Bill si era fermato giusto un passo prima della porta del bagno. Bill guardava Marnix al bancone, e Phil seduto vicino allo straniero.
La lunga canna della revolver gli entrava in parte nella narice, la guancia destra gli si era accartocciata intorno all'occhio.
Respirava appena Spacca-Naso-Phil, mentre Willy impugnava saldamente la revolver con uno sguardo assente e perso nel vuoto premendola contro il suo naso.
Marnix fissò attentamente il naso distorto di Phil. Poi gli occhi di Willy. Di nuovo la revolver. Ed ancora lo sguardo di Willy. Osserva entrambi Marnix. Fin quando si voltò e sospirò un rassegnato:
-Fanculo.
Scrollò le spalle e si voltò iniziando ad asciugare qualcosa che pareva un bicchiere sporco.
Provaci-ancora-Bill era ancora vicino alla porta del bagno del saloon quando strinse le ginocchia, poi strinse le guance, poi strinse la bocca, poi strinse gli occhi e poi si voltò verso Jackie-Tre-Mani. Jackie-Tre-Mani sollevò le mani dolcemente dai tasti ed il Do diesis scordato si perse lentamente tra le sudicie pareti in legno del saloon. Tirò una boccata di sigaretta e si volto verso i fratelli Duncan seduti in fondo alla sala. I fratelli Dancan che non avevano detto nemmeno una parola per tutta la giornata si guardarono senza dirsi niente, fin quando uno di loro non esclamò:
- Per me se la sta facendo adosso.
- Io dico che ce la fa.
- Ti dico che se la sta facendo addosso.
- Ed io ti dico che ce la fa.
- Cinque monete sul tavolo.
- Perché non facciamo dieci. Sei stretto di chiappe.
- Allora vada per venti.
- E venti siano.
Cosí sbatterono entrambi quaranta monete sul tavolo. Le sbatterono con forza senza nemmeno guardarle. Erano uno di fronte all'altro i fratelli Duncan. Muso a muso. Uno tirò un cazzotto al tavolo che fece barcollare i due boccali colmi di succo al pompelmo. L'altro fece altrettanto ed i boccali si rovesciarono per terra, tra le tavole di legno scuro che tappezzavano l'intero saloon.
- Guarda che cosa hai combinato, pezzo di deficiente.
- Cosa ho combinato io? Cosa hai combinato tu piuttosto.
Cosí, il fratello Dancan, quello di destra, prese la testa del fratello Dancan, quello di sinistra, ed iniziò a sbatterla con violenza contro il bordo del tavolo. Quando il fratello Dancan, quello di sinistra, gli strinse la mano mentre il suo sopracciglio iniziava a sanguinare, il fratello Dancan di destra si fermò e disse:
- Hey tutto ok?
- Si, non preoccuparti.
E cosi il Dancan di sinistra tiro un calcio allo stinco di Duncan di destra. Caddero sulle sedie, spinsero il tavolo ed alcune delle quaranta monete messe sul tavolo caddero e si sparsero per il locale. Jackie-Tre-Mani, che con una mano fumava una sigaretta, con l'altra iniziò a suonare The Entertainer come colonna sonora del momento con l'altra mano rimastagli, raccolse una moneta rotolata fino ai piedi del piano la guardò e disse:
- Io dico che se la fa addosso.
E senza guardare con una mano la lanciò all'indietro, mentre con l'altra continuava a suonare e con l'altra ancora ordinava un altro bicchiere di succo di more.

Robert-uno-due-tre-Robert aveva avuto una vita che solo a raccontarla ci avresti messo una vita. Erano di quelle storie intense, e cosí ricche di episodi e racconti e persone che a stento chi le ascoltava credeva fossero vere. Ma robert, detto uno due tre robert, era fatto cosí, la gente del Saloon lo sapeva e lo stava ad ascoltare. Si diceva che avesse la bianca più bianca della neve, e più folta di un qualsiasi montone da pascolo. Robert parlava accarezzandosi la lunga barba che ormai era diventata un tutt'uno con i pochi capelli che ancora era riuscito a mantenere, fin quando pochi minuti dopo Robert chiudeva gli occhi e stramazzava di faccia sul tavolo. La gente intorno si guardava e in silenzio, riponeva le sedie intorno al tavolo e si allontanava. Era fatto cosí uno-due-tre Robert. Era narcolettico. Narcolettico fin dall'età di sessantatré anni quando un mago girovago venne in paese. Dopo aver tirato fuori un coniglio da un cappello che venne fuori putrefatto e con gli occhi di fuori dopo il lungo viaggio sotto il sole, ed aver cercato di districare degli anelli che gli si strinsero ai polsi come due manette, tanto da dover chiamare lo sceriffo per liberarlo, il mago cerco di raccogliere l'attenzione dei presenti e disse:
- Ed ora farò addormentare uno tra di voi.
Quelli che erano ancora svegli ma ubriachi come una spugna da bancone da Saloon per l'appunto, si guardarono intorno e videro che la maggior parte degli spettatori dormiva per terra o abbracciato ad una sedia.
- Giá fatto. Bella magia di merda.
- Vattene da dove sei venuto.
Piovvero boccali di birra, pezzi di sedie e monete che qualcuno immediatamente sali sul palco improvvisato a riprendersi scusandosi per lo sbaglio.
In tutto il trambusto generale Robert, non ancora uno-due-tre, si offri volontario e si avvicinò al mago. Il silenzio scivolo nella sala, e qualcuno che si era svegliato per le urla chiese:
- Che cazzo succede?
- Niente dormi pure, un'altro numero che non riuscirà.
E cosi tornavano ad abbracciare la sedia o il pavimento, a seconda della posizione più consona.
Il mago fece sedere Robert su di una sedia nel bel mezzo del palco. Recitò qualche filastrocca senza rima, ondeggio un po le mani e poi inizio a contare.
- E uno...
- E due...
- E tre!
Robert guardò il mago. Il mago guardò Robert. E tutti rimasero col fiato sospeso. Ancora. Ancora un pò. E poi ancora un altro pochetto.
Robert si guardò intorno e tutti scoppiarono in una fragorosa risata.
- Senta, almeno ci ha provato, ma posso tornamene al mio posto, questa sedia mi fa venire il culo a strisce - disse Robert.
- Si prego.
E voltandosi verso il pubblico il mago disse - Signori vi ringrazio per la vostra attenzione. Lo spettacolo é finito.
E cosí dicendo diede un battito di mani.
Fu in quel momento che Robert, appena alzatosi dalla sedia tenendosi la schiena e rastrellandosi i pantaloni alla bell'é meglio, stramazzò per terra.
- Porca puttana é morto.
- No che non é morto.
- Io dico che ci é rimasto.
Tutti i presenti si alzarono in piedi e tra le chiazze di birra, vomito e piscio si avvicinarono al palchetto. Qualcuno punzecchiava Robert con la punta dello stivale. Qualcun'altro gli premeva il fucile sul fianco.
Robert rimaneva lí. Immobile.
- E ora che si fa?
- Ed io che ne so, chiedilo a quello.
Tutti si voltarono verso il mago, che fece due passi indietro ed inciampò sul cadavere del coniglio putrefatto.
- Ora lo devi svegliare.
- Ed io che ne so come si fa a svegliarlo. Non credevo nemmeno funzionasse il numero. Voglio dire non ha mai funzionato capite. Non mi é mai successo che qualcuno si addormentasse per davvero.
Cuoio, fodere di pelle e cinturoni si mossero tutti insieme. Cinque revolver, otto fucili a canne mozze, tre pugnali ed un cucchiaino da thé puntarono immediatamente verso il mago.
- Jeffrey che diavolo di fai con un cucchiaino?
- Non lo so. Ho perso la pistola da qualche parte ed é l'unica cosa che sono riuscito a trovare.
- Jeffrey come diavolo lo ammazzi con un cucchiaino? Spacca una bottiglia almeno, cosí riesci almeno a tagliarli un orecchio.
- Devo vomitare.
Jeffrey si volto ed inizio a vomitare bestemmiando e tirando giù tutti i santi dal paradiso.
Cosí rimasero cinque revolver, otto fucili a canne mozze, tre pugnali che puntavano contro il mago che respiro profondamente e disse:
- D'accordo ci provo. Ma ho bisogno vi allontaniate e mi lasciate un pò di spazio.
Tutti si allontanarono ed abbassarono le armi.
Il mago iniziò a recitare una filastrocca senza rima, ondeggiò un pò le mani e poi iniziò a contare alla rovescia:
- Tre...
- Due..
- Uno..
E proprio mentre disse uno si voltò ed iniziò a correre.
- ...
- Dove diavolo sta andando adesso?
- Magari gli scappava?
- Poteva avvisarci almeno no?
- Se la sta filando a gambe levate quello li. Fermatelo!
Una pioggia di piombo piovve alla spalle del mago che continuava a correre.
Si videro volare palle, pallettoni, pallottole di ogni calibro, un coltello, una sedia ed un cucchiaino da thé. Jeffrey continuava a non trovare la sua pistola.
Corse verso il deserto il mago. Corse e corse a perdifiato e nessuno ne seppe più nulla.
Robert venne trascinato nel Saloon e messo su di una sedia poggiato ad un tavolo mentre ancora dormiva. Rimase li per tre giorni e tre notti. E quando si svegliò l'unica cosa che disse fu:
- Mi sento il culo a strisce.
Da allora iniziò la sua narcolessia cronica. E da allora divenne Robert uno-due-tre.

Quando Jackie-tre-mani lanciò la moneta senza guardare alle sue spalle, la si vide roteare in aria attraversando l'intero saloon, passando sopra le teste dei fratelli Duncan ancora presi ad azzuffarsi e dirigendosi verso Robert uno-due-tre che dormiva con la faccia spalmata su di un manto di succo di mela che ricopriva il suo tavolo. La moneta finì nel suo boccale, schizzando gocce di succo un po dappertutto. Un paio caddero sul volto di Robert che improvvisamente si svegliò, si rizzò in piedi scaraventando per terra sedia e tavolo, mentre il suo boccale di succo di mela esplodeva sul pavimento iniziò ad urlare:
- Cazzo, arrivano gli indiani!
Cosí mentre Jackie-Tre-Dita suonava un pezzo a tre mani, Willy-Lo-Squarcio teneva ancora salda la pistola nella mano, Marnix asciugava dei bicchieri sporchi con un panno sudicio, mentre Spacca-Naso-Phil aveva ancora la canna del revolver che gli faceva da tappa-moccio, i fratelli Duncan se le davano di santa ragione e mentre Provaci-Ancora-Bill si era chiuso in bagno scaricando Dio solo sa cosa, mentre il sole continuava a tramontare e la terra a roteare, le porte del Saloon si spalancarono. Ed un ombra iniziò ad avanzare.
Silenzio.
Tutti si bloccarono. Nemmeno il vento soffiava più per la strada, ne tra le finestre ombrate. Silenzio. Le mosche si dileguarono e nessuno ricordava mai di aver sentito una tale assenza di rumore nel Saloon. L'ombra avanzava con passo claudicante. E mentre si avvicinava al bancone del bar nella quiete più assoluta, si senti il rumore di un enorme scorreggia provenire dalle porte del bagno e l'urlo disperato di Bill, detto provaci-ancora-Bill che diceva:
- Scusatemi, ma sta volta ce l'ho fatta!






domenica, ottobre 14

Back to Blog

Questo è un test. Questa è una sorta di prova. A meno che non siate in cerca di attacchi o crisi depressive, da teste infilate in un cuscino per ore, da bicchieri di vino svuotati uno dietro l'altro (senza rovesciarli sulla moquette s'intende) presi da ansie, paure e robe di questo moderno affascinante tipo, lasciate stare questo post. Non dico di cambiare blog, se volete rimanete pure, siete i benvenuti. Ma questo post non è niente ne tantomeno ha niente di interessante. Che meriti la vostra attenzione. Portate il cane a far pipí sull'aiuola del vicino, chiamate la persona con cui siete usciti la settimana scorsa ma che non avete avuto il coraggio di richiamare o tirate fuori la torta al cioccolato che avete in frigo e attaccatela e distruggetela a suon di cucchiaino. Ma non leggete questo post. Ci siamo? Tutti a fare qualcos'altro? Bene. Lasciamo questo post alla solitudine che merita. Dove si era? Ha già. Questo è un test. Reminiscenza. Qualcosa di molto simile a chiudere gli occhi e vedere la prima cosa che ti rotola per la mente. Acciuffarla se possibile, stringerla con veemenza, sempre se possibile, e sbatterla sulla tastiera. Poi fermarsi ad osservarla e vedere come ci sta. Tutto qui. Questa è una sorta di poetica triste banale insensata interpretazione di "quello che eravamo", sempre ammesso che questo titolo richiami qualche film, libro, programma televisivo. Ma che diavolo, la creatività va satollandosi (satollandosi?) ci sarà pure qualcosa con questo nome da qualche parte. Bene, nel caso vi sia, deve essere qualcosa di immensamente triste. Qualcosa di immensamente triste cui questo back to blog dovrebbe riavvicinarsi. È strano. Da spiegare. Immaginate di non avere più un compagno. O compagna a seconda si sesso e gusti. Immaginate di perseverare nella vostra sentimentale solitudine per un pezzo. Niente scappatelle. Niente avventure occasionali. Niente. Fino a sfiorare una retroattiva verginità. Un retrogusto amaro che avevate dimenticato persino di conoscere. Ci siete? Ecco. Adesso immaginate di incontrare qualcuno e finirci a letto. Come vi sentireste? Voglio dire, quale sarebbe la sensazione? Eccitazione ed entusiasmo sono ovvie e scontate. Ma risposte sbagliate. La risposta esatta è che vi sentireste come se aveste perso il libretto d'istruzioni. Si insomma, lo sapete come montare quel diavolo di tavolinetto e potreste e ci andate a tentoni, ma il libretto d'istruzioni, quello non lo trovate, non lo conoscete più. Afferrato? Libretto. Notte d'amore dopo aver dimenticato come si fa. E metafore del genere. Stringere il concetto con intensità, agitare ma non mescolare e viene fuori quello che sto cercando di fare adesso. Provare a scrivere nonostante non trovi più il libretto d'istruzioni. Perché ce n'é uno ci si domanderebbe? Non ne sono poi cosí sicuro. Ma se ve ne fosse. Se esistesse io l'avrei perso. Non è niente di drammatico per carità. Credo sia in po come andare in bici no? Uno impara, poi se ne dimentica e poi in realtà quando ci riprova ricorda che lo sa fare. Solo che come dire, sbanda un po ecco. Pedala con fare impacciato ma poi la retta via la riprende. Spero. Credo. Non si capisce davvero niente in questo post. E cosi deve essere. Pare e dico pare, che siamo pronti per iniziare. Di nuovo. Ancora. Daccapo ancora una volta. Chiudiamo gli occhi e vediamo un pò come va.

mercoledì, novembre 23

Saggio sulla liberta' ed altri sentimenti - Uno

Il concetto di Liberta di cui spesso ci si fa vanto e strumento trascende ed esula profondamente da quello che in realta' la vera liberta rappresenta. L'autore nota come, ogni opinione, espressione e giudizio da qui in poi citati saranno puramente soggettivi, ma dato il loro dogmatico veritiero contenuto verranno assunte come mere imprescindibili verita'.

Abbracciata con fervore nei momenti di piu profonda intimita' personale e sventolata come una sfarzosa burlesca bandiera dai piu', viene difficile di poter credere che taluni ne apprezzino e ne conoscano la vera essenza.

La verita' é che la Liberta' é solo una lontana sensazione che spesso ci si diverte ad avvicinare, sfiorare. Fare si che ci sieda accanto e la si cavalchi per un po'. Giusto quanto basta ad assaporarne la brezza. Nelle narici. Nelle membra.

La Liberta' vissuta rende irrequieti. La Liberta' assaporata rende scoperti. Nudi in una fredda giornata. E' per quanto l'esperienza possa essere coraggiosa e indomita, si accosta piu ad un rapido ricordo da inanellare che ad una vera e convinta via da intraprendere. Sentirsi liberi, che é come ben noto ben distante e lontano dall'essere liberi, rappresenta un curioso stato psico-fisico di cui non si puo', fosse anche solo per un minuto, un'ora, una vita, essere che estasiati.

La tanto blasonata Liberta, spesso dura solo pochi secondi. Il concetto di Liberta', la sensazione di Liberta', perdura solo per pochi istanti. Che poi la liberta' di per se sia ufficialmente lunga effettivamente di piu' non ha molta importanza. Perché appena assaporatone il sapore e la sensazione sulla pelle, nell'animo e nello spirito, l'umana essenza tende a rivalutare quanto la circonda pronta a trovare un fittizio stato, sia sociale, sia morale, sia circostanziale, che inevitabilmente la conduce ad abbandonare la personale, e quindi percepita, sensazione di Liberta'.

In verita' quindi la Liberta' non é altro che un inutile stendardo da sfoderare al momento del bisogno. La Liberta' é un inutile servizio di porcellana conservato in credenza e rispolverato por poche rare occasionali occasioni della vita.
La verita' é che la Liberta' non é per tutti. La Liberta' non é per chiunque. Perché la liberta rende inevitabilmente estranei. La Liberta' va di pari passo con la solitudine. Due fratelli, che volenti o nolenti convivono, e sempre conviveranno. Non importa il contesto. Non importa il momento. Liberta' e Solitudine andranno sempre l'uno di fianco all'altro.

Questa deduzione rende sillogicamente in parte spiegabile la ragione per cui la Liberta' non é ne puo' essere abbracciata da tutti e chiunque. Perché lo sfarzoso manifesto della Liberta' porta con se il tarlo dell'essere soli. E che si provi a dire il contrario. Che si provi ad addurre evidenti casi in cui tale parallelismo non sia verificato. Saro a pronto in poche righe a dimostrarne il contrario.

Evidente é quindi come tutti amino riempirsi la bocca e il vanto col termine Liberta', ma abbiamo al contrario vergogna, ed una profonda repulsione per lo stato di isolamento, si Solitudine. La Solitudine della Liberta' é profonda e radicata, a volte, spesso mai superficiale. Come d'altronde la Solitudine per indotto sillogismo non conduce alla Liberta'. Ma questo é un saggio sulla Liberta' e sentimenti ad essa connessi, quindi non vi é ragione alcuna di entrare nel merito specifico di altri sentimenti.

Si sappia che la Liberta' é pestilenza. Malaria. La Liberta' é infetta in ogni sua forma. La Liberta' é singolare e a tratti celata. Nascosta. Perché il pubblico stato di Liberta', non sempre, quasi mai diremmo, viene accolto positivamente dal comune giudizio. Ragion per cui spesso abbandonata. Ragion per cui viene avvolta da un tale velo di fascino e interesse.

Ma come un diamante grezzo, brillante e ipnotico da osservare, non vorrebbe essere ostentato ne diremmo indossato da taluni per paura, timore e sensazioni ad esse correlate, cosi' la Liberta' é docile da ammirare ma dal lato comodo del vetro che la separa dal resto. Perché entrare nella gabbia della Liberta' puo' spaventare. Spaventare a tal punto da voler perdere e indietreggiare nie confronti del poco senso e sensazione di Liberta' che gia si possiede.

La Liberta' é come una notte di follia, che prima o poi, almeno una volta va vissuta. Ma si badi bene, che essere Liberi nell'animo e nel cuore, che vivere di follia non per una notte, ma per una vita intera, ha i suoi rischi. E che li si accolga. Che ce ne si capaciti almeno. E che non si sventoli quella che é una momentanea sporadica fuoriuscita dal binario come lo stato di Liberta', perché seppur tanto lusingata e corteggiata, la Liberta', quella vera, non merita di essere insultata, ne derisa, ne copiata in calce in malo modo.

La Liberta' é sola. La Liberta' é solitudine. E prima di intraprenderla. Prima tentare di assaporarla a pieni polmoni, e lasciare che vi entri dentro come un verme strisciante fino allo stomaco ed inizi a nutrirsi delle vostre viscere, credo sia il caso che ognuno, ognuno di noi, ne abbia la piu' viva consapevolezza. E inizi a compiere le proprie scelte con tale consapevolezza. Nel cuore. E nell'animo.

Perché alla fine tentare di essere Liberi, per qualche strano gioco della sorte, puo' portare ad essere liberi davvero. E solo allora si iniziera' a porsi il quesito se la Liberta' fosse veramente quello che si desiderava.

domenica, settembre 18

Once upon a time

25 settembre ore 5.30 del mattino.

Capo di Finisterre

Oceano. Mare.
Immobile. Immenso e freddo.
Visto da quassù. Quassù tra le rocce a pochi metri dal faro, che a tratti illumina la scogliera e per il resto di perde nell’infinito oceano, il mare sembra fermo. Immobile.
Luna piena.
La luna illumina tutto intorno.
La luna si riflette nel mare. Nell’oceano.
Immobile. Il mare, qui ed ora, pare immobile. Come una foto scattata e lasciata lì, di fronte alla scogliera, solo da guardare, da essere ammirata.
Qui ed ora, al buio della notte il mare pare ricongiursi con il cielo.
Il mare di cui se ne sente il rumore. Infrangersi contro gli scogli. Le rocce. L’oceano che confonde le sue schiume con il chiaro delle nuvole.
L’oceano fermo, profondo e immenso.
Qui, Capo di Finisterre dove l’Europa, il mondo finisce. Qui dove prima di scoprire la terra fosse rotonda si pensava finisse il mondo. Il mondo intero.
Mare. Oceano. E dopo nulla più.
Dove il sole scivola lento dietro le nuvole, ingoiato dall’infinta distesa d’acqua.
Da Capo di Finisterre, dal faro di Capo di Finisterre il mare sembra tutto. Il mare è tutto.
Seduto sul bordo della roccia a strapiombo sul mare, il mare sembra tutto.
Perché oltre al mare, all’oceano, non vi è null’altro.
Mentre il faro ruota con periodicità alterna illumina la parte sterna della mia tenda.
Qui ed ora. Prima che il sole sorga, al buio della mia tenda, alla luce della torcia.
Tra alberi, rovi e rocce. Qui il mondo termina.
Qui ho fatto un falò con quanto avevo usato nel cammino. Qui ho bruciato tutto. Sempre sugli scogli. Sempre guardando l’oceano.
Ho bruciato buona parte degli indumenti. Ho bruciato ogni carta, foglio, mappa e cartina che mi ha accompagnato per questi trentasette giorni.
Nulla in più doveva rimanere. Nulla che mi avrebbe potuto ancora ricondurre al cammino.
Tutto ridotto in cenere. Come sempre.
Ho lasciato che le fiamme si impadronissero di tutto. Mentre i turisti che erano saliti fin quassù per osservare il tramonto ormai erano via.
Mare. Oceano.
Ho lasciato tutto bruciasse lentamente. Mentre il sole ormai era nascosto dietro le nubi. La schiuma. Le onde. Il mare.
Ho guardato tutto ridursi in cenere tenendo il capo ricurvo sulla spalla di Rosangela. Abbracciandola. Tenendole la mano.
“Ce l’hai fatta”. Mi ha sussurrato all’orecchio.
Abbiamo preso una cosa ciascuno dal nostro zaino e l’abbiamo posta sull’ultima torre.
Quella che dà sul mare. Sull’oceano. E dopo niente più. Le abbiamo legate strette insieme.
E le abbiam fissate lì.
Legate. Insieme. Al vento e al sole.
Legate, fissando l’oceano. Il mare. In uno dei punti più là dello strapiombo.
Legate insieme a fissare ogni alba ed ogni tramonto. Di questo strano magico posto chiamato Capo di Finisterre.
Capo di Finisterre. Che non lo si crede neanche ad immaginarselo.
Capo, faro di Finisterre. Teatro, ultimo atto della fine del mondo. Dove ogni giorno un mondo finisce e dove ogni giorno un nuovo mondo rinasce.
Scrivo alla luce di questa torcia, qui ed ora, con il rumore del mare, dell’oceano in sottofondo e Rosa che dorme di fianco a me.
Oggi, quando ogni raggio di sole era sparito, quando la fiamma alimentata da ciò che avevo portato si era spenta, siamo andati al buio al punto più basso della scogliera.
E li con la sole luce della luna ad illuminarci, lì con il mare, l’oceano, disteso sotto di noi.
Lì soli e al buio abbiamo scaraventato i nostri bastoni nell’oceano.
L’ho baciato il mio bordone. Tenuto stretto per un po’ e poi ho lasciato roteasse e precipitasse fino a perdersi nel buio della scogliera.
Dell’acqua.
Del mare.

Acceso un fuoco con i miei vestiti e lasciato che il mio bordone fosse portato via dal mare.
Qui e oggi, dove uno scarpone sulla scogliera segna la fine del cammino, qui, dove la terra finisce, dove il sole muore e risorge ogni giorno dall’acqua, qui a Capo di Finisterre, ora e adesso, ho smesso di essere un pellegrino.
Qui, al faro di Finisterre. Qui, il mio cammino di Santiago è finito.

domenica, settembre 4

Chiavorafilia

Ore 2.09 di un grigio buio (grazie, é notte...) lunedi mattina.
Locazione (ammesso e non concesso che locazione sia italiano ed abbia lo stesso significato qui inteso): periferia di Amsterdam, Paesi Bassi (sempre nel caso il lettore non sia molto avvezzo alla geografia).

Ci sono tante cose di cui si potrebbe parlare, scrivere, dire raccontare seduto (sdraiato) al buio della propria stanza in una notte piovosa. La prima potrebbe essere tanto per cominciare la longevita delle zanzare. Di come esse riescano a farti compagnia anche quando finestre e porte sono sbarrate o anche quando fuori vi siano gradi di numero al di sotto dei trenta, ma per grazia divina di poco sopra allo cero. Ma non è di questo che l'autore voleva parlare. Ma del resto io si.
Quello di cui voleva parlare, (ne abbiamo discusso a lungo mentre lui prendeva in mano il bicchiere ed io bevevo, o mentre lui fumava ed io accendevo una sigaretta) era qualcosa rigurdante le ultime nostre strane manie. Sue forse. Mie anche.
Parlatemi delle vostre manie. State pur certi che per qualsiasi cosa vi sentiate dipendenti o abitudinariamente deformati vi è un'espressione latina che la descrive. Pensate di essere malati ogni giorno della vostra vita. Ipocondriaci. Scappate dai luoghi chiusi. Claustrofobici. Luoghi aperti. Agorafobici. Lavate le mani trenta volte al giorno. Anancastici. O meglio anancasmo e tutto quello che lo racchiude. Ora, pensate di essere originali. Perché in realta molto probabilmente non lo siete se passate parte della giornata leggendo articoli (articoli?) come questo. Ma ammettendo che lo foste cosa fareste di strambo?
Considerando farsi il bidet con la mano non usuale o farlo voltati verso il muro o schiena al muro sono orami pratiche antiquate e in disuso se applicate all'originalita. L'autore, non io, si cimenta negli ultimi tempi in pratiche alquanto strambe. Dove il conviverci fa sorridere. Dove il convivere lascia perplessi.
Chiudere la porta. Ecco trovatemi qualcosa di strano nel chiudere la porta. Niente di anormale. Ma se la porta non fosse chiusa? Bé la richiudereste. Ma se poi dopo qualche minuto vi venisse il dubbio che fosse aperta? Forse vi alzereste dalla sedia e rincontrollereste. Ma mettiamo caso che dopo la terza volta, voi ci pensiate e la domanda piu stupida, piu inammissibile, insensata e sconsiderata che vi venga in mente sia:"Ma la porta é davvero chiusa?". Allora vi rialzereste per rincontrollare? La risposta é no. Ma c'è gente, che forse lo farebbe. E l'autore in questo caso é uno di questi. Non è un problema di sapere se la porta é chiusa. (lo si sa gia che è chiusa) ma vi è l'incessate spasmodico bisogno di avvicinarsi alla maniglia e roteare la chiave e sentire il blocco. E poi, una volta voltatisi, per sicurezza, (ma solo per sicurezza) giusto per non tornare poi una seconda volta, si ricontrollarla. Questa nuova mania sara definita chiavorofilia. Che non è la passione di chiavare, come qualche malpensante potrebbe intendere ma semplicemente il bisogno di chiudere e richiudere nuovamente la porta. Nel caso ultimo fosse chiusa, ma ben bene, allora forse é il caso di riaprirla dare un'occhiata in giro e richiuderla ben bene.
L'altra straba abitudine é l'occhio di bottiglia. Non l'occhio di pesce, non l'occhi di lince ne della tigre. Ma l'occhio ddi bottiglia...in cosa consiste? Semplicemente nel fare l'occhiolino al collo della bottiglia giusto un attimpo rpima di berla.
Sempre e cmq. Ora sarebe piacere parlarne narrarne e condividere, ma l'autore deve andare a controllare la porta, ed i lo segup.....

lunedì, agosto 15

Point of view

Greek. If you haven't ever tried to speak greek before, never mind. Just try to remember your first elementary day school. Big huge heavy book loading your small hunched back, giant little chair letting your feet swinging like a dirty seesaw in a green park in the outskirts of your own town, and gorgeous mammoth new age style ancient temple called this-is-your-dask-for-the-rest-of-the-year. Now, get rid of all noise your desk neighbour is playing like the worst drama you'd ever seen in all your life, screaming, shouting, bursting out crying asking for a ghostly mum who's not there anymore, telling everyone he's being missing his teddy bear forgotten alone in the middle of two faded pink pillows on his bed. Forget your new old, friendly boring bothered teacher pretending to care about your most-important-day-life-till-now called first day of school. Stick a squashy piece of something within both your ears and keep being concentrate on the blackboard.
Can you see those weird hieroglyphics signs drawn with that white chalk?
Now, as long as we assume this to be your first school day in life, how long do you estimate it should be needed to understand and read what your young innocent eyes got in front of them?
Hope you own a strong and deep imagination, and assuming you were there when your first school day took place....well, now, and only now, you can start feeling like I did when I saw first plenty of road signs in Greece.
If you haven't ever know what dyslexia is, probably u might start having a thought about that. But frankly, nobody cares you staring in front of a sign for more than twenty minutes. Moving smoothly and slowly your lips pretenting to pronounce some odd sound someone's suppose to understand. But nobody does.
What people care is something funny who can give them a good laugh for while, take them out from their boring daily routine.
This, and load of other stuff, is what I'm thinking about while the bus controller gives a shout to the bus driver asking him to stop driving and hope back door between the seat number 45 and 44.
"I need you to get off of the bus" he says with placid quietness.
I took a look outside the window and what I saw is a romantic stretch of grass running for hundreds of meters. Hundreds of hundreds of meters till the ground start climb a mountain with evergreen trees and a couple of hawks flying around and around and around looking at me by those tiny balls sticked between their beak.
The only thing I can think is if they've had lunch already.
Luckily this was only what the left side window landscape offered to my swelled eyes. I turn my neck, crossing the bus controller who's still waiting in front of me, sliding towards the right side of the bus. Even worse. A kind of desert laid to that unknown place where the sun is suppose to set. I look my girlfriend. She look at me. And the smarter answer coming in my mind was: "Hemm, no I won't".
This is one of that kind of event where passengers attention is caught in less the a half of a second. So you turn to be a kind of silent monologist in the middle of an hot boiling stage built in a an instant in the tiny corridor of a bus with direction Caltarichi. If I'd had a map, I could have well know that Caltarichi was exactly in the opposite direction me and my girlfriend were suppose to go. But we've not google map always in our hands. Not during the holidays at least.
So, that's strange the way a missing map let you argue with helpful bus controller, but often as human being are keen on the most, we never do the right thing.
"Get off. Now" says him again.
My answer was a sad "Ok, sir" and actually that's the reason why now me and my girlfriend we are Just staring each other on the side of an highway, leaded by a crazy hysterical laugh shaking our hands and crying. Sometimes happiness tears get really close to the sadness ones. But not in this case.
"So what now?" we say. We smile. We hold our hands and start walking back few kilometers try to catch up the closest bus station.
This is not the best way to start an holidays. To finish it either. But isn't lovely funny the best and the worst are Just the same thing looked from to different point of views?
Moreover isn't harsh and unusual to end a post with a useless rhetoric question?
Definitely, yes.